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Il Buco: il nuovo e meraviglioso film di Michelangelo Frammartino

Nel 2011 l’artista calabrese Michelangelo Frammartino ha ottenuto un piccolo successo indie con un film intitolato Le Quattro Volte, un’opera di una bellezza struggente, eccezionalmente lenta, con un cast di non professionisti e animali straordinariamente ben arrangiati. Un film che costruisce la sua essenza negli spazi vuoti e nelle longueurs meravigliosamente girate. Al centro del discorso de Le Quattro Volte l’idea della reincarnazione dell’anima attraverso forme animali, vegetali e minerali.

Ora però Frammartino è tornato – 10 anni dopo, senza voler affrettare le cose – con Il Buco, un altro film che si accontenta di passeggiare accanto all’azione senza minimamente interferire, guardando boschi, cielo, rocce e alberi, identificando un paradiso sereno e tranquillo in tutto ciò che la sua macchina da presa vede. Non è proprio un documentario, ma nemmeno un lungometraggio narrativo. L’equivalente cinematografico di un eremita sulla cima di una montagna che osserva riflettendo tra sé e sé. Si può dire che Il Buco brilli di una luce propria.

Guardando attraverso l’altopiano del Pollino dove si trova il buco, c’è un pastore anziano (Paolo Cossi) la sua fronte abbronzata solcata come la corteccia increspata dell’albero accanto al quale si siede ogni giorno immobile sul ripido pendio per osservare il suo gregge. Davanti a lui c’è una vista così vasta che il vortice della terra è percepibile nel modo in cui l’ombra si insinua giù per i pendii lontani e come le nuvole proiettano piccole ombre sul fondovalle. Le riprese paesaggistiche di Renato Berta sono straordinariamente in sintonia con le glorie di questa regione poco turistica.

Presto però, arriva un gruppo di giovani speleologi, per accamparsi alla foce dell’abisso. Si potrebbe facilmente pensare che l’intrusione di questi “stranieri” in questo bucolico idillio calabrese possa essere il movente per una una sorta di drammatico conflitto tra gli abitanti del posto e gli studiosi. Eppure non è così. Frammartino sceglie deliberatamente – e alla fine in modo quasi frustrante – di tenere gli esploratori a distanza, osservandoli da lontano, riducendoli a semplici chiacchiere davanti al fuoco e a mormorii indistinti .

Un frame de “Il buco”

Tuttavia, man mano che la spedizione procede, e mentre la macchina fotografica di Berta viene inviata sempre più in profondità nei punti più remoti del buco, dove le immagini sono illuminate solo dalle torce, il pastore si ammala. Qui nasce una possibile chiave di lettura. Mentre l’anziano pastore viene nutrito dai compagni, lo sgocciolio dell’acqua nella sua bocca da un panno imita i rivoli d’acqua che scorrono lungo le pareti della grotta e si raccolgono in piccole pozze su piattaforme naturali. Il movimento di una vena nella sua mano ricorda il cammino della troupe di speleologi attraverso l’angusta voragine e la mappa in scala del suo interno che uno di loro sta disegnando faticosamente. Un dottore che illumina i suoi occhi evoca esplicitamente i raggi delle torce usate per perforare l’oscurità del sottosuolo.

Il Buco, nel suo modo meditativo e senza fretta, racconta la storia della missione degli speleologi. Ma la collega quindi alle sorti dell’anziano pastore.

Il Buco, senza troppi giri di parole e lasciando stare interpretazioni varie o commenti filosofici, rimane un esperienza visiva incredibilmente emozionante. Frammartino riesce ancora una volta a mostrarci la realtà in tutto per tutto senza l’ausilio di alcun mezzo cinematografico. Il Buco è un film senza essere un film. Il Buco è semplicemente un’esperienza da vivere.


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