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L’ufficiale e la spia: l’ultimo film di Roman Polansky non riesce ad emozionare

L’Affaire Dreyfuss è il complotto per antonomasia, lo stato prepotente contro il più inerme dei suoi figli, lotta impari, prova di forza inutile e grottesca, la razza come nemico primario. E poi la ribellione, gli intellettuali schierati, il ruolo della stampa, il paese spaccato in due. Quante suggestioni che rimandano ai nostri tempi, quante vicende individuali, Snowden, Khashoggi.

Eppure il film  sembra voler eludere i rimandi scontati alle vicende contemporanee. Sceneggiato dallo stesso Polansky con Robert Harris (i due avevano già collaborato per il bellissimo L’uomo nell’ombra) sin dal titolo vuole concentrare l’attenzione sul rapporto personale tra i due: il maggiore Georges Picquart e il capitano Alfred Dreyfuss, l’Ufficiale e la Spia. I due si incontreranno solo due volte nell’arco di dieci anni: la prima, quando Picquart assiste alla cerimonia in cui Dreyfuss viene degradato , essendo stato tra gli artefici della condanna. E alla fine, quando Dreyfuss ormai riabilitato, chiede al Generale Piquart che gli vengano riconosciuti i reali anni di servizio, inclusi quelli ingiustamente trascorsi in carcere.

Nel mezzo, oltre 10 anni in cui le vite dei due protagonisti si sono reciprocamente influenzate , nella ricerca della verità testardamente voluta da Picquart.

Lo stile del film rimanda a Hitchcock, le suggestioni letterarie a Edgard Allan Poe: Picquart è soprattutto investigatore, incuriosito dalla prova della condanna di Dreyfuss, una lettera incorniciata e orgogliosamente appesa in ufficio dal suo predecessore. Quel semplice foglietto attrae la sua attenzione, lo studia, lo confronta, arriva alla conclusione essere un falso. Da questa presa di coscienza, dal rigore morale della ricerca della verità, parte la sua battaglia che porterà alla liberazione di Dreyfuss. Con i tempi del legal drama si passa attraverso i tentativi di insabbiamento, i processi che arrivano a sentenze pilotate, alla presa di posizione di Zola, e al finale inevitabile per una democrazia. Tutto gira intorno alla testardaggine silenziosa di Picquart (un ottimo Dujardin), alla sua forza fisica e morale, alla capacità di sopportazione di false accuse che lo porteranno fino al carcere.

L’incontro finale con Dreyfuss non è conciliatorio. L’accusato ne ha subite troppe per poter essere riconoscente al suo vecchio carnefice, poi liberatore. E’ freddo, risulta anche antipatico allo spettatore. E Picquart, ormai Ministro dell’Interno, non potrà andare incontro alle giuste richieste avanzate da Dreyfuss. La ragion di Stato lo impedisce, lui ormai è dall’altra parte. O forse lo è sempre stato.

Il film si fa amare per l’impianto classico, che si esprime attraverso la recitazione dai tempi teatrali (molti attori arrivano dalla Comédie Francaise); per le straordinarie scenografie (Jean Rabasse); per la fotografia livida (Pawel Edelmann). E soprattutto perché non grida mai, laddove sarebbe lecito insorgere. Non indugia mai, laddove  sarebbe giusto sdegnarsi.

Eppure, non riesce ad emozionare. La voglia di tenere tutto nei limiti della cronaca di un’indagine, di non toccare mai la corda dell’ironia, lo rende troppo televisivo. Adatto a tutti, ma senza coinvolgere nessuno.

Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia, dove Polansky avrebbe potuto risparmiarsi il facile accostamento della sua condizione personale di indagato, con la vicenda di Alfred Dreyfuss. Se vuole che la verità emerga, si faccia processare e ne sopporti le conseguenze. Come fece il suo antieroe.

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Marcello! è una testata giornalistica dedicata ai veri cinefili. A tutti coloro che amano il buio della sala cinematografica, l'odore dei pop-corn e la magia del grande schermo. Insomma, a tutti coloro che non riuscirebbero a vivere senza la settima arte.   

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