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Minari: la semplicità che emoziona

Minari” è la versione cinematografica dello scrittore e regista Lee Isaac-Chung della propria infanzia, cresciuta nell’Arkansas rurale negli anni ’80. Opportunamente, il film sembra sfogliare un album di ricordi episodici ed esperienze che hanno segnato per sempre la vita del regista. Cucito insieme in modo organico e senza sforzo, si sviluppa come una serie di vignette splendidamente disegnate di una famiglia di immigrati coreani che cerca di rivendicar il così desiderato sogno americano.

Nella speranza di gestire una propria fattoria, Jacob Yi (Steven Yeun) trasferisce la moglie Monica (Yeri Han) e i due figli, Anne (Noel Kate Cho) e David (Alan Kim), in un appezzamento di terreno in Arkansas. Monica non è molto contenta di vivere in una roulotte in mezzo al nulla e non esita a farlo presente al marito. Questa tensione coniugale ribolle per tutto il film, e si concretizza successivamente (spoiler alert) in un “quasi divorzio”.

Ripetendo la frase: “i coreani usano la testa” a suo figlio, Jacob scava letteralmente la fossa per il suo conto in banca. Scava il suo pozzo, prende un prestito per comprare un trattore e coltiva verdure coreane per venderle alla popolazione coreana in espansione nelle città vicine. Ma quando si ritrova i debiti fin sopra la testa, Monica deve prendere in mano la situazione per assicurarsi che la famiglia venga prima della fattoria.

Se Jacob è un sognatore, Monica è una realista.

Le dinamiche familiari cambiano immediatamente all’arrivo della madre di Monica, Soon-ja (Youn Yuh-jung). La veterana Youn ci regala una perfomance da Oscar, specialmente quando si relazione con il piccolo David. All’inizio, il rapporto tra David e sua nonna non sembra andare per il verso giusto, ma poco alla volta imparano a scoprirsi a vicenda (soprattutto dopo aver scoperto la passione in comune per il wrestling professionistico, l'”acqua di montagna” (Mountain Dew) e i giochi di carte). Chung inquadra i loro scontri come intermezzi comici, ma senza dimenticare l’importanza emotiva di quelle scene.


L’autenticità del film è costruita su dettagli dolorosamente intimi. Per esempio quando la nonna arriva dalla Corea del Sud, porta con sé borse piene di fiocchi di peperoncino coreano e acciughe secche. Sopraffatta dall’emozione, Monica piange. Si percepisce che dietro alle immagini che vediamo c’è una sorta di familiarità con questa routine che riesce ad affondare un buon colpo al cuore con chiunque si sia mai trasferito in una nuova città o in un nuovo paese.

La metafora centrale è l’erba che dà il titolo al film. Soon-ja porta David a piantare alcuni semi di “minari” vicino a un ruscello ai margini della loro fattoria. La “minari” è un’erba perenne nota per crescere su tutti i terreni. Dopo la morte apparente invernale, ritorna più forte di prima nei mesi primaverili.

La pianta di “minari” insomma riassume perfettamente l’esperienza degli immigrati, i sacrifici fatti dalla prima generazione per far prosperare la seconda. Mentre la metafora si radica nella narrazione, anche la famiglia Yi trova lentamente la forza e la resilienza per ritagliarsi il proprio posto in America.

Il razzismo è un’altra tematica fondamentale trattata da “Minari”. Una difficoltà notevole per chi – come la famiglia Yi – si trova in un paese totalmente nuovo e un po’ conservatore. I problemi xenofobi infatti non sono inesistenti nella cittadina di Bible Belt, manifestandosi in maniera celata e attraverso micro-aggressioni: si possono tranquillamente osservare (trattati in maniera molto discreta dal regista) durante la festa nella chiesa locale. Un ragazzo bianco dopo ver fissato David per un tempo lunghissimo, decide di chiedergli perché la sua faccia è così piatta.

Frame del film “Minari”

La delicatezza e la non pesantezza con cui Chung tratta l’argomento è incredibile. Talmente sottile che è molto probabile che attraverso il film parli in prima persona.

A parte questo “razzismo casuale di 2 minuti”, la forza di “Minari” risiede proprio nella sua estrema semplicità. Ci racconta semplicemente la vita di una famiglia di immigrati. Tanto semplice quanto complesso. Piuttosto che andare alla ricerca di grandi emozioni, il film acquista fascino proprio in quelle più piccole. Il suo fascino sta nella semplicità delle cose e nei piccoli grandi doni che la vita può regalarti.

È per questo che non si può fare a meno di innamorarsi della famiglia Yi, che rimane al nostro fianco anche dopo i titoli di coda.

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Marcello! è una testata giornalistica dedicata ai veri cinefili. A tutti coloro che amano il buio della sala cinematografica, l'odore dei pop-corn e la magia del grande schermo. Insomma, a tutti coloro che non riuscirebbero a vivere senza la settima arte.   

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