Quando il colore diventa narratore: il cinema di Wes Anderson
Pillola rossa o pillola blu? Pillola verde menta, grazie. Vedere un film di Wes Anderson è come ricevere una bomboniera, aprirla, e trovarsi davanti tanti confetti dalle sfumature diverse: carta da zucchero, verde menta, giallo senape, arancione albicocca, marrone, azzurro, viola e rosso. Una gamma che spazia dalle tinte pastello ad altre più accese, fino al bianco e nero. Assaggiando ogni confetto ci si ritrova immersi in un'atmosfera retrò, che può ricordare un momento tra gli anni Trenta, Sessanta, o anche Ottanta. Ed è poi il mix che si genera dai vari assaggi che ci porta in ognuna delle storie di Wes Anderson. Per il regista texano il colore, e con esso la fotografia e le inquadrature, sono parte integrante ed essenziale della trama. Senza di loro il risultato sarebbe incompleto, se non addirittura insensato: senza uno studio preciso dei colori i personaggi rimarrebbero interrotti e presentati a metà, senza poter esprimere quasi nulla di sé.
Un colore per esprimersi, una simmetria per muoversi
Ogni film è composto da scene caratterizzate da precise palette cromatiche, studiate in base ad ogni momento e a ciò che provano i personaggi. Questa alternanza tra pastelli, toni accesi e bianco e nero è così ricorrente che si potrebbe suddividere in tre grandi macrogruppi: toni rosa cipria e azzurri per i momenti intimi, bianco e nero per flashback e flashforward, o per momenti più "seri" e movimentati, ed infine toni accesi e contrastanti per quelli più comici e caricaturali. Questo modo di scandire il corso delle storie diventa così un veicolo, per aiutarci a capire che tipo di atmosfera circonda la scena che ci viene presentata, e più nello specifico diventa il mezzo fondamentale per trasmettere le sensazioni dei personaggi stessi, i loro pensieri, e le loro emozioni.
In Moonrise Kingdom (2012) quasi tutte le scene sono caratterizzate da tinte pastello che vanno dal rosa all'azzurro, perché il focus centrale è su Suzy (Kara Hayward) e Sam (Jared Gilman), e sulla loro storia d'amore clandestina. Sono i colori pastello a dirci che tutta la loro fuga è raccontata dal loro punto di vista, intimo, romantico e anche un po' incosciente. È come se vedendo la loro storia d'amore ci venisse consigliato di viverla allo stesso modo, insieme a loro.
In Grand Budapest Hotel (2014) il quadro si ricompone nella stessa maniera: colori tra il rosa e la carta da zucchero per i momenti intimi tra Agatha (Saoirse Ronan) e Zero Moustafa (Tony Revolori), toni accesi con predominanza di rosso e viola per i momenti apertamente caricaturali, come durante la scena dell'ascensore con Monsieur Gustav (Ralph Fiennes) e l'anziana Madame D. (Tilda Swinton), e bianco e nero per i monologhi e i momenti "d'azione".
In The French Dispatch (2021), nel capitolo Revisions to a Manifesto, quando Lucinda Krementz (Frances McDormand) si specchia piangendo nel bagno in cui si trova anche Zeffirelli (Timothée Chalamet), che dopo averle chiesto il motivo del suo pianto, riceve in risposta un "I suppose I'm sad".
Oltre alla sottile ironia di base, a noi spettatori - e forse anche alla stessa Lucinda - è proprio la presenza del bianco e nero a dare conferma della sua tristezza. Così come nel secondo capitolo, Il capolavoro di cemento, il soffitto che sta osservando il pittore Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro) mentre parla con Simone (Léa Seydoux) - con la quale ha una relazione molto intensa - nel corso della loro conversazione si "accende", passando dal bianco e nero al colore.
Il colore come veicolo di interpretazione
Le storie di Wes Anderson non presentano mai delle situazioni apertamente angoscianti, o spaventose, ma piuttosto appaiono leggere e spensierate. E a trasmetterci queste sensazioni serene è soprattutto la presenza del pastello, che già di per sé comunica tranquillità, contribuendo a creare un ambiente generale rilassato e rilassante, che ci fa stare seduti comodi sulle poltrone della sala, o sul letto.
Ciò però non vuol dire che i personaggi siano piatti, o che non abbiano nulla da trasmettere e raccontare. Il loro non essere mai del tutto buoni o del tutto cattivi a prima vista potrebbe farli sembrare poco profondi e frivoli.
Ed è proprio qui che interviene il colore, rendendo esplicite le loro debolezze, la loro rabbia, le loro paure e i loro amori, così come permette all'atmosfera di riempirsi di suspense, tensione, passione o ilarità. Sono i colori a rendere l'aria che circonda questi film, così retrò e bizzarra, una parte essenziale, che consente allo spettatore di entrare nella storia e relazionarsi con i suoi protagonisti. Il colore nel cinema di Anderson è il vero protagonista, importante tanto quanto (se non di più) il cast, la colonna sonora, e le inquadrature.
Ogni film di Wes Anderson è come un dipinto, in cui ogni elemento contribuisce a dare all'opera completezza. Così come il mix tra i vari tipi di confetti, i personaggi "assaggiati" da soli resterebbero incompleti.
"Alla Wes Anderson"
Per lo stile che lo contraddistingue, Wes Anderson è sicuramente riconosciuto tra gli artisti più visionari degli ultimi vent'anni.
Non è un caso che oggi si possa definire "alla Wes Anderson" una fotografia che sia caratterizzata da simmetrie e colori pastello. Una definizione che si può ritrovare anche nel mondo dei social, per esempio come tendenza su TikTok, o tra i filtri di Instagram.
La cura che pone per ogni singolo dettaglio nella composizione di ogni scena, ogni simmetria, ogni inquadratura, è tale da diventare protagonista della storia stessa che va a rappresentare, ed è anche ciò che ci spinge ogni volta a scoprire la sua prossima composizione, per vivere un altro momento in cui cinema e pittura si incontrano di nuovo.
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